Non era uno dei giorni migliori per ritornare al Campo di Summonte, ma aveva, rispetto agli altri, il fascino freddo del sole di fine dicembre, la sensazione di essere sovversivi nei confronti del Natale, e il desiderio di catturare qualcosa di nuovo, ma anche di identico, a distanza di anni.
Più che di giorni migliori, sono viziata da decenni migliori. Da distese di margherite, dal profumo di fiori estivi.
A CURA DI VALENTINA GUERRIERO
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Ci volevano dalle 2 alle 4 ore, l’aria era fresca e pura. Dei tanti percorsi che potevamo fare, quello al Campo di Summonte era per me il più bello. Partiva ricco di fiori, ginestre, sassi sul selciato, bruchi e poi farfalle, conoscevo ogni angolo di quel sentiero sassoso baciato dal sole. Diventava dopo ombroso, composto da alcune curve piene di piante che spuntavano dal sottobosco, e poi s’infilava tra gli alberi fitti.
Si passava anche per un punto, un piccolo piazzale, che chiamavo Il Campo dei Grilli. Ad ogni passo, migliaia di piccoli grilli di ogni colore saltavano scappando, per poi muoversi ancora, allegri e irrequieti, bianchi, azzurri, grigi, verdi. Se quell’erba fosse stata un’universo, i grilli erano parte del firmamento, minuscole stelle comete che sfuggivano ai miei passi e poi vi ricadevano dentro. Un universo in un altro universo: il mio, fatto di un pianeta che non conoscevo ancora, e che man mano si formava ai miei occhi. Avevo sicuramente meno di quattro anni mentre vivevo tutte queste storie.
Ciò che fin dall’inizio prese forma nella mia mappa furono proprio quelle montagne, con la Valle delle Fontanelle e il Campo di Summonte. Il cielo era sempre azzurro su di loro, su quella Valle, sui sassi bianchi tirati nel Clanio.
Era strano, era maledettamente strano, che con tutti i miliardi di possibilità che c’erano, il caso aveva fatto girare la ruota e per me s’era creato proprio quel mondo, l’unica soluzione possibile. Tutte le cose che mi circondavano, erano bellissime e determinate da qualcosa sulla quale non avevo potere.
Ricordo che ci fu un esatto momento di transizione tra il vivere e l’osservare e l’analizzare e imparare ciò che mi stava accadendo e il momento in cui presi esattamente consapevolezza di chi ero, e trovavo tutto così strano, che io ero proprio io, in quel posto, che tra l’altro era straordinario: guardate che razza di fortuna mi era capitata.
Avevo appreso che io ero Valentina, e al mattino mi svegliavo, e andavamo a fare delle passeggiate nella Valle delle Fontanelle, al Castello, al Campo di Summonte.
Tra i miei ricordi, una volta, al ritorno dal Campo di Summonte, avevo un bruco su una foglia. Era un bruco stupendo, grande quanto la mia piccolissima mano, dai buffi peli verdi e le estremità rosse. Era così bello e morbido che si poteva accarezzare, sembrava uno dei peluche che tenevo riposti a casa nella cassapanca bianca. Vi immaginate lo stupore di una bambina nel trovare un bruco così? Su questa lunga foglia lucida e verde lo stavo portando via con me, ponendo attenzione a non farlo cadere, ma quando giungemmo alla macchina mi accorsi che il bruco era scomparso. Fino a pochi secondi prima l’avevo visto, e dopo non c’era più. Da allora ho amato tutti gli insetti, in particolare i bruchi, i bruchi pelosi.
Dopo molti anni, oserei dire un paio di decenni, mi sono chiesta il Campo di Summonte dove fosse finito. Non s’era mai spostato, lo sapevo, e avrei potuto tornarci in qualsiasi momento, così come in altri luoghi dov’ero stata, e proprio forte di questa certezza non mi ero più preoccupata di andarci. Per qualche motivo nel tempo non era più accaduto. Avevano preso forma altre cose, e queste si succedevano senza sosta. Il Campo di Summonte era rimasto lì, come il passato che non può essere cancellato. Ciò che è stato è stato, come potrebbe scomparire? Ma le montagne non erano rimaste quelle di un tempo, sotto sotto lo sapevamo. Anche per questo avevamo smesso d’andare. Erano cambiati i tempi, erano cambiate le usanze, erano cambiate le passeggiate.
Così in una giornata di fine dicembre di un presente molto vicino (quanti dicembre ci saranno nel presente?), panettone attaccato allo zaino e una bottiglia di spumante, ci siamo incamminati. Non mi piaceva nessuno dei due, spumante e panettone, ma per il piacere di festeggiare in un modo atipico, ero assolutamente entusiasta dell’idea.
Il percorso era ed è ancora semplicissimo, quasi interamente in piano. L’aria fresca di montagna, rende i diversi chilometri di cammino piacevolissimi e meno stancanti di metà di quei chilometri in città, dove l’aria impura e il caos quotidiano non rilassano né il corpo né lo spirito.
Nessun grillo c’era in quel giorno d’inverno, ma l’erba, quella era identica, con una coltre di nebbia bassa e cupa che avvicinandosi da un vicino e ripido pendio sembrava sussurrarle di star buona e di nascondere i suoi segreti a noi che oramai eravamo adulti.
Per quanto riguarda la Bocca dell’Acqua, si tratta di un punto, una roccia-grotta, dalla quale l’acqua sgorgava copiosamente, alimentando il fiume Clanio. Un tempo la vegetazione era molto più rigogliosa e l’acqua che scorreva nel Clanio permetteva ai contadini di irrigare i campi. Alla fine degli anni ’50 la Bocca dell’Acqua fu incanalata, la Cassa del Mezzogiorno fece i lavori ed il fiume si ridusse. Prima di essere incanalata la Bocca dell’Acqua aveva una portata d’acqua grandissima (tant’è vero che hanno trovato utile captarla) e percorrendo quei sentieri prima del ’57 se ne sentiva il rumore, un rombo che, a detta di chi lo ricorda, ad intervalli di qualche secondo faceva un botto, cadendo “al di sotto” in qualche punto. Era considerato un luogo pericoloso intorno al quale fare attenzione e si raccomandava alle contadine di non avvicinarsi. Percepito come un inghiottitoio, c’era il rischio di caderci dentro e annegare.
Una mandria di cavallini era nei dintorni della fontana, e vedendoci alcuni si allontanarono nascondendosi tra gli alberi alle spalle. Era tutto immobile. Il tintinnio delle vacche non c’era, se non lontanissimo. Ci pervase una sensazione di tranquillità, i cavallini, la nebbia nel bosco, il sole che all’improvviso infrangeva i suoi raggi nella vasca, mentre raffreddavamo lo champagne da festa mettendolo nell’acqua. Era bello, ma molto diverso dai miei ricordi. Persone diverse, stagioni diverse. Costruzioni diverse, memorie perse.
Sicuramente alcune cose allo stato attuale sono oggettivamente cambiate: le strade sono più battute di un tempo, abbiamo trovato un paio di jeep parcheggiate e anche una nuova costruzione, piuttosto grande. Non sembra più il campo lontano da ogni cosa che si apriva dinanzi a noi solo dopo due o tre ore di cammino, ricoperto di margherite, rumore di acqua scrosciante, ghiacciata, cristallina e distesa nella fontana, a volte macchiata da chiazze verdi pure nel loro colore come un inchiostro, come una forza propria della natura che si espandeva ovunque, anche nell’acqua di una fontana di pietra.
Buon Natale, vi direi, se non fosse che siamo a giugno.
Vi lascio, come al solito, con alcune righe di Emilio Buccafusca.
Tra fiori selvaggi e profumi di menta, finocchio e rosmarino, vanta nel primo tratto oliveti che offrono i rami quasi braccia di candelabri d’argento ed insinuano pace ai malaccorti che osano imprecare alla ripidezza ed alla impervietà della sassaia.
D’inverno non c’è nessuno ed il vento infuria tremendo e iracondo con l’ira della solitudine contro le querce robuste e i rametti stecchiti sollevando la neve che pur violata riprende cristallina la sua verginità. D’estate alpeggiano gli armenti trasportati dal Tavoliere ad urli e sassate dai bovari che tornano adesso ancora dalla Germania e dalla prigionia. […] Nella bàita del Campo, accanto alla sorgente, i padroni lavorano burri e caciotte, così come da secoli gli avi degli avi.”
(Emilio Buccafusca, Al Vallatrone per il Campo di Summonte, scritto numero 1)