Ecco il discorso di Renzo Piano.
Signor Presidente, signora Clinton, signore e signora Pritzker, è naturalmente per me un grande onore ricevere il Premio Pritzker 1998. E voglio innanzitutto ringraziare i membri della giuria. Aprendo le porte del tempio a uno come me, che è cresciuto standone sempre a una certa distanza, si sono presi una bella responsabilità. Io, naturalmente sono felice, orgoglioso e grato di essere nominato architetto dell'anno, qualunque cosa ciò voglia dire. E' una cosa un po' buffa: ricorda la top dell'anno, il meglio della stagione, il record del mese. Non è che anche l'architetto sia a scadenza, come i medicinali: finito l'anno, finito l'architetto?
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L'architettura, infine, è un'arte che mescola le cose: la storia e la geografia, l'antropologia e l'ambiente, la scienza e la società. E inevitabilmente è lo specchio di tutto ciò. Ma forse posso spiegarmi meglio con un'immagine. L'architettura è come un iceberg. Non nel senso del Titanic, che se la incontri ti tira a fondo, ma nel senso che ne vediamo solo una piccola parte: il resto è sommerso e nascosto. Nei sette ottavi dell'iceberg che stanno sott'acqua troviamo le forze che spingono l'architettura verso l'alto, che consentono alla punta di emergere: la società, la scienza e l'arte.
L'architettura è società, perché non esiste senza la gente, senza le sue speranze, le sue aspettative, le sue passioni. E' importante ascoltare la gente. Ed è difficile, soprattutto per un architetto. Perché c'è sempre la tentazione di imporre il proprio progetto, il proprio modo di pensare, o peggio, il proprio stile. Credo invece sia necessario avere un atteggiamento leggero. Leggero, ma senza rinunciare a quell'ostinazione che consente di testimoniare le proprie idee e al tempo stesso di essere permeabili, di capire le idee altrui. Non sono un boy scout e il mio richiamo allo spirito di servizio non vuole essere moralistico. Molto semplicemente, è un richiamo alla dignità del nostro mestiere. Senza questa dignità rischiamo di perderci nel labirinto degli stili e delle mode.
Vivere l'architettura come servizio è certamente un condizionamento, un vincolo alla libertà creativa: ma chi ha mai detto che la creatività deve essere libera da ogni vincolo? Vorrei dire di più: interpretare la società e i suoi bisogni è la ricchezza dell'architettura. Firenze è bella perché è l'immagine dell'Italia del Rinascimento, dei suoi artigiani, dei suoi commercianti, dei suoi mecenati. Nelle sue vie, nelle sue piazze e nei suoi palazzi si riflette la visione della società di Lorenzo de' Medici.
L'architettura è scienza. Per essere scienziato, l'architetto deve essere un esploratore, e deve avere il gusto per l'avventura. Deve affrontare la realtà, con curiosità e coraggio, per conoscerla e per cambiarla. Deve essere "homo faber", nel senso rinascimentale del termine. Pensate a Galileo: il cannocchiale era stato inventato per avvistare le navi, non certo per studiare il moto delle stelle. Alle stelle pensavano i teologi. Lui invece voleva indagare gli astri, e si mise contro la lobby più potente del suo tempo, per farlo. E' un'immagine che per me rappresenta molto: una formidabile lezione di curiosità per il nuovo, di autonomia di pensiero, di coraggio di esplorare l'ignoto.
Gli architetti devono vivere sulla frontiera, e ogni tanto attraversarla per vedere che cosa c'è dall'altra parte. Anche loro devono usare il cannocchiale per cercare ciò che non è scritto sui sacri testi. Brunelleschi non progettava solo edifici, ma anche le macchine per costruirli. Racconta Antonio Manetti come avesse studiato il meccanismo dell'orologio per applicarlo a un sistema di grandi contrappesi: con questo sistema fu sollevata l'armatura della Cupola. È un bellissimo esempio di come l'architettura sia anche ricerca. E ci fa riflettere su una cosa importante: tutti coloro a cui oggi guardiamo con "reverenza" come classici, ai loro tempi sono stati grandi innovatori, sono stati "moderni". Hanno trovato la loro strada provando e rischiando. Nella motivazione del premio la giuria ha fatto un riferimento a Brunelleschi che mi riempie di orgoglio e di imbarazzo nello stesso tempo. Non è un modello raggiungibile, o anche solo avvicinabile. Se devo misurarmi con qualcuno, penso piuttosto a Robinson Crusoe: un esploratore capace di muoversi in terre sconosciute.
L'architettura è un'arte. Usa una tecnica per generare un'emozione, e lo fa con un linguaggio suo specifico, fatto di spazio, di proporzioni, di luce, di materia (la materia per un architetto è come il suono per un musicista, o le parole per un poeta). Per me è molto importante un tema, quello della leggerezza (che ovviamente non si riferisce solo alla massa fisica degli oggetti). Al tempo dei miei primi lavori era un gioco: una sfida un po' ingenua fatta di spazi senza forme e di strutture senza peso. In seguito, questo è diventato il mio modo di essere architetto. Io cerco di utilizzare in architettura elementi immateriali come la trasparenza, la leggerezza, la vibrazione della luce. Credo che facciano parte della composizione quanto le forme e i volumi. E come in tutte le arti ci sono momenti difficili. Creare significa scrutare nel buio, rinunciare ai punti di riferimento, sfidare l'ignoto. Con tenacia, con insolenza, con ostinazione. Senza questa ostinazione, che io trovo sublime talvolta, si resta alla periferia delle cose. Finisce l'avventura del pensiero: comincia l'accademia. Per creare veramente l'architetto deve accettare tutte le contraddizioni del suo mestiere: tra disciplina e libertà, tra memoria e invenzione, tra natura e tecnologia. Non si può sfuggire: se la vita è complicata l'arte lo è ancora di più.
L'architettura è tutto questo: società scienza e arte. E, come l'iceberg, è il risultato di una stratificazione che dura da migliaia di anni. Come l'iceberg, è una massa in continuo cambiamento: il ghiaccio continuamente si scioglie e si riforma con l'acqua di oceani diversi. L'architettura è così lo specchio della vita. Per questo io vedo in essa prima di tutto la curiosità, l'ansia sociale, la voglia di avventura: sono queste le cose che mi hanno sempre tenuto fuori dal tempio. Sono nato in una famiglia di costruttori, e questo mi ha dato un particolare rapporto con il "fare". Ho sempre amato andare in cantiere con mio padre e vedere le cose nascere dal nulla, create dalla mano dell'uomo. Per un bambino il cantiere è magia: oggi vedi un mucchio di sabbia e mattoni, domani vedi un muro che sta in piedi da solo, alla fine tutto diventa un edificio alto, solido, dove la gente può abitare. Sono un uomo fortunato: ho passato tutta la vita a fare ciò che sognavo da bambino.
Nel 1945 avevo sette anni, e iniziava il miracolo della ricostruzione dopo la guerra. Sappiamo che in nome del progresso e della modernità si sono dette e fatte tante schiocchezze. Ma per la mia generazione la parola "progresso" ha significato davvero qualcosa. Ogni anno che passava ci separava dall'orrore della guerra e di giorno in giorno la nostra vita sembrava migliore. Crescere in quegli anni ci ha dato una fede ostinata nel futuro. Appartengo a una generazione di persone che ha mantenuto per tutta la vita un approccio sperimentale, esplorando campi diversi, profanando le frontiere tra le discipline, mescolando le carte, prendendo rischi e facendo errori. E questo in terreni diversi. Dal teatro alla pittura, dal cinema alla letteratura e alla musica. Senza mai parlare di cultura. Cultura è una parola fragile, che, come un fantasma, può svanire nel momento stesso in cui la evochi. Tutto ciò ti fa crescere istintivamente ottimista e ti fa credere nel futuro. È inevitabile. Ma nello stesso tempo ami il passato (essendo italiano, o meglio europeo, non puoi fare diversamente): e quindi vivi sospeso tra la gratitudine verso il passato e una grande passione per la sperimentazione, per l'esplorazione del futuro.
Mi vengono in mente le parole di Francis Scott Fitzgerald che concludono "Il grande Gatsby" (nella bellissima traduzione in italiano di Fernanda Pivano): "Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato". È una splendida immagine, che rappresenta la condizione umana. Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l'unico posto dove possiamo andare, se davvero dobbiamo andare da qualche parte.
Partire, tornare, capire il mondo e prima ancora se stessi, scoprire il valore impagabile del nostro patrimonio del passato per farci comprendere il futuro e guardare con fiducia al domani. E dunque aprirsi, gettarsi alle spalle tanti luoghi comuni, non temere di rischiare su strade nuove, inventare, sperimentare, sbagliare e riprovare. Con entusiasmo e magari spirito di squadra, forti di tanti amici con cui condividere sforzi e sogni.
La fiducia che Piano ripone nei giovani, in quanto chiave di svolta per il futuro, lo ha ripagato proprio in questi giorni vedendolo protagonista della maturità 2014. Renzo Piano è contento che una delle tracce sia un suo testo sul "il rammendo delle periferie". E' contento ''da senatore a vita che ha sempre fatto l'architetto'': ''inseminare dei temi nelle coscienze in modo da smuoverle, mettere in moto un volano di idee che poi prosegua autonomamente. In Senato ci vogliono persone che, siano senatori a vita o meno, rappresentino la forza civica del Paese. Come può l'Italia guardare lontano senza la cultura, che è la nostra vera forza?''
Entrando nel merito del tema, ''la sfida di rendere più belle e urbane le nostre periferie è entrata nelle coscienze di molti italiani, non soltanto perché l'80 per cento della popolazione che vive in città sta in periferia. Le periferie sono la città del futuro, così ricche di umanità ed energia.
C'è solo da fare una gigantesca opera di rammendo per renderle pezzi di città felice: che tocca a noi fare, ma soprattutto ai giovani, quegli stessi ragazzi che oggi sostengono l'esame di maturità. Per questo - dice Piano - sono grato al Ministero dell'Istruzione. Sono loro, i giovani, il nostro domani e quello delle nostre città oggi così fragili''.
L'architetto Piano conclude con un vero e proprio messaggio ai giovani. ''Il nostro è un Paese di talenti straordinari, i giovani sono bravi e, se non lo sono, lo diventano per forza: siamo tutti nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è la nostra cultura umanistica, la nostra capacità italiana di inventare, di affrontare i problemi in maniera laterale, di cogliere i chiaroscuri. Dico inoltre ai giovani di non rassegnarsi alla mediocrità, di viaggiare per imparare le lingue e per capire gli altri e di comprendere che la diversità è un valore, non certo un problema. Inoltre viaggiare (ma sia chiaro per poi tornare) serve ai giovani per rendersi conto della fortuna che hanno avuto a nascere in un Paese come l'Italia: perché se non si va all'estero si rischia di assuefarsi alla nostra grande bellezza e a viverla con indifferenza''.
Serve un progetto di lunga durata per salvaguardare il patrimonio italiano.
È importante che questo progetto sia di lunga durata. Naturalmente capisco: c'è un dramma, una tragedia accaduta poche settimane fa. Ma si tratta di un progetto che va più lontano, un progetto generazionale, che deve durare forse due generazioni, cinquant'anni. Mi riferisco ad un progetto a lungo termine: il progetto di salvaguardare il Paese e il suo patrimonio residenziale dal sisma. Questo è il vero progetto.
La casa, dunque: vorrei occuparmi di casa. Non lo dico per limitare il terreno, perché naturalmente ci sono altri temi grandi. Lo dico non per limitare gli sforzi, ma per concentrarli. Sono una persona molto pratica e so che bisogna concentrare gli sforzi per ottenere il risultato. Vorrei concentrarli, quindi, sulla casa, perché essa è il rifugio di tutti. La casa è un rifugio, ma è anche il luogo del silenzio. In fondo, tutti noi abbiamo passato la vita a tornare a casa, ogni settimana, ogni mese, ogni giorno. La casa è il rifugio, il luogo del silenzio, in cui si ritrova se stessi. Non è immaginabile che essa non sia un luogo sicuro: è sicuro per definizione.
Questa è la ragione per cui credo che questo progetto generazionale sia importante e, tutto sommato, è forse un mestiere adatto ad un senatore a vita, perché sarò qui finché campo e vorrei che su questo tema non si spegnessero i riflettori. Uno dei problemi, infatti, è che dopo un po' i riflettori si spengono e questi temi si dimenticano. Invece questo è un tema che va tenuto vivo, almeno per i prossimi cinquant'anni e forse anche per di più.
Arriviamo al dunque: qual è questo progetto? Ho già lavorato su questi temi e tutto deve cominciare con la diagnostica. Non vorrei annoiarvi con questioni pratiche, ma la medicina è diventata più precisa, più scientifica e più attenta, man mano che le diagnosi sono diventate più precise. Man mano che esse sono diventate più precise, la chirurgia è diventata meno invasiva e distruttiva. Ebbene, è un po' quello che deve succedere per le case: la prima cosa da fare è uscire dal terreno oscuro dell'opinione, in cui ciascuno sostiene che si debba fare in un modo o in un altro. Bisogna entrare, invece, nel terreno stabile e certo della scienza e introdurre la diagnosi. Guardate che la diagnostica scientifica esiste e la si applica anche al costruito, principalmente ai monumenti, così come esiste in medicina. Ci ho provato quasi quarant'anni fa, insieme all'UNESCO, utilizzando la termografia e degli strumenti che, tra l'altro, produciamo in Italia. Il nostro è un Paese straordinario, in cui produciamo anche questi strumenti: li ritrovo in giro per il mondo, ma sono prodotti in Italia.
La diagnostica degli edifici è un punto di partenza, perché questa diagnostica così precisa consente subito di passare ad una cantieristica leggera. Anche in questo caso non voglio annoiare, ma l'unica cosa in cui in fondo posso essere utile è cercare di entrare nel dettaglio. Esattamente come accade in medicina, più la diagnosi è precisa, più la chirurgia diventa leggera. Ebbene, ci vogliono i cantieri leggeri, che sono fatti con degli strumenti diversi, che quarant'anni fa non esistevano, ma che esistono oggi. Vi assicuro che si possono fare delle chiavi, che rinforzano gli edifici, senza distruggerli e spaccare tutto. Non mi voglio dilungare, ma quelli che da tra di voi capiscono di tecnica, sanno di cosa voglio parlare. Benvenuti nel mondo della contemporaneità. Sul tema della casa, bisogna passare dal mondo leggermente medioevale in cui viviamo, ad un mondo che ci appartiene.
Perché è dunque così importante questa diagnostica e perché è importante fare i cantieri leggeri? C'è una ragione umana, molto importante: in tal modo non si devono allontanare le persone dalle loro case. Questa è la verità ed è qui che entra in gioco l'elemento inventivo.
Vedete - lo sapete meglio di me - c'è una connessione fortissima tra la casa e chi la abita, tra le mura e chi ci sta dentro. È un'unità inscindibile e non è immaginabile separarle. Non allontanare le persone dalla casa significa immediatamente avere la possibilità di abbassare i costi di intervento: costi fisici, economici ma anche quelli umani. Sto parlando di un progetto che deve durare due generazioni; mi auguro che cominci subito, naturalmente, deve cominciare, ma qualcuno deve pensare a questi tempi lunghi, perché sono quelli che ci mancano.
In Italia siamo bravissimi nell'emergenza immediata. La Protezione civile è uno degli esempi migliori che abbiamo al mondo; siamo leggermente meno bravi sul lungo termine. Quindi, questa idea di fare qualcosa che si possa fare senza allontanare la gente dalle proprie case rende il progetto molto più fattibile, anche sul piano pratico, evidentemente, sul piano umano ed economico. Bene, nella sostanza cosa propongo? Lo propongo - ripeto - nell'ambito del mio ruolo così com'è, con un gruppo di lavoro che è accanto a me e che lavora in questo senso, senza bisogno di nulla, se non stare assieme ed essere utili al Paese. A questo punto propongo di fare dieci prototipi.
Vedete, nel mio mestiere - lo so benissimo - bisogna fare dei prototipi; non basta parlare, non bisogna nemmeno scrivere, non basta. Bisogna fare esempi, costruire dei prototipi. So benissimo come si devono costruire i prototipi: sono degli esempi. Bisogna costruirli lungo l'arco dell'Appennino, la zona sismica, che viene dai Balcani in realtà; ci accompagna ai Balcani. Bisogna scegliere attentamente tra il patrimonio vetusto della casa - mi sto concentrando sulla casa, e chiamo vetusto il patrimonio più anziano di settant'anni - e quello più recente, che è quello che è stato costruito nel Dopoguerra, settant'anni fa. Occorre partire da queste due famiglie e poi naturalmente bisogna parlare di tecniche costruttive: la pietra, il laterizio, la struttura mista, il cemento. Sono state costruite cose spaventose in cemento negli anni del Dopoguerra. Dico spaventose non al livello di estetica ma di sicurezza. Quindi, fare questi 10 prototipi è molto importante. L'idea è di costruirli nei prossimi anni, non nei prossimi cinquant'anni, in tempi brevi. Abbiamo la competenza per poterlo fare.
Qualcuno potrebbe dire - sono sicuro che qualcuno lo penserà - che questa è un po' teoria, accademia. No, non lo è. Vi assicuro che sono una persona molto pratica. Sono un costruttore di città, di luoghi per la gente: so come si fa. Si può fare, ma ci vogliono due o tre cose. La prima ovviamente è un'organizzazione, che però è possibile. Il nostro non è un Paese in rovina. È un Paese che può disporre annualmente, su un tempo lungo, di un budget.
Non voglio entrare nei dettagli - non è mio compito - ma stiamo parlando di un patrimonio di 10 milioni di case. Questo è l'ordine di grandezza. Qualcuno dirà che sono otto, nove, undici. Stiamo parlando di tutto il patrimonio residenziale che sta sulla spina degli Appennini e non solo, naturalmente. Un patrimonio fatto di borghi molto spesso. Ebbene, questo patrimonio di 10 milioni di edifici può essere messo in sicurezza - la sicurezza, la certezza non esiste con il sisma, ma la salvaguardia sì - con un costo che ovviamente è limitato grazie al fatto che ho spiegato poco prima.
Non entro nel dettaglio di quanti soldi ci vogliono, ma sono soldi che possono essere trovati facilmente nei bilanci di ogni anno. Sono soldi che rientrano immediatamente in circolazione: è come dare ossigeno, perché sono microfinanziamenti, microimprese, microcantieri. C'è anche bisogno di una macroimpresa, diciamo così: c'è bisogno di una grande organizzazione, ma sono soldi che rientrano immediatamente. Questo è un terreno su cui mi trovo meno a mio agio, anche perché altre persone sapranno fare meglio di me in questo senso, ma certamente ci vuole un'intelligente organizzazione.
In passato, parlando di periferie, ho parlato di rammendo. Ecco, «rammendo» è una parola un po' troppo umile, però di questo si tratta. Si tratta di cominciare e non smettere più e di vergognarsi di dimenticare i drammi, che passano, escono dalla cronaca e si dimenticano.
Ci sono poi un paio di rivoluzioni culturali. Dobbiamo tutti abbandonare il terreno oscuro e medievale della fatalità. Si parla tanto di fatalità, ma non esiste! Certo, il terremoto è una cosa fatale. Il terremoto c'è sempre stato in Italia e ci sarà sempre purtroppo, ma non è fatale che non si reagisca. Si dice che la natura è cattiva; la natura non è cattiva, né buona; è completamente indifferente, però ha fatto una bella cosa: ci ha dotati dell'intelligenza, che è una cosa naturale. L'intelligenza ci ha consentito da quando esistiamo di coprirci, costruire dighe, argini e case per proteggerci. Difendiamoci, allora. Bisogna abbandonare il terreno della fatalità. Bisogna smettere di parlare di fatalità. Questo credo che sia un elemento culturale molto importante.
C'è quella che definirei una responsabilità collettiva. Dobbiamo tutti metterci in testa che questa è una verità. Non possiamo nasconderci. Ci sono persone che non vanno a fare le analisi mediche per paura di sentirsi dire che sono malate. Smettiamo con questo gioco al massacro. Accettiamo il fatto che siamo entrati in una fase diversa e accettiamo la responsabilità collettiva.
Vorrei concludere con una rivoluzione, che forse è ancora più importante. Io sono un italiano cosmopolita per mia natura e scelta, però sono profondamente italiano. Sono forse un osservatore privilegiato, ma ho quasi l'impressione che in Italia ci si sia assuefatti alla bellezza del nostro Paese. C'è una sorta di assuefazione per cui non ce ne rendiamo più conto. Forse gli italiani non si rendono più conto di che patrimonio abbiamo. Quando parlo di bellezza dell'Italia non mi riferisco alla bellezza cosmetica e nemmeno alla bellezza dei monumenti, ma di quella delle nostre 100 città e dei nostri 100, 1.000, 10.000 borghi. In particolare mi viene in mente l'Appennino, perché è la zona più a rischio. È una bellezza diffusa del tessuto urbano. È una bellezza che non appartiene a noi, ma al mondo: è patrimonio dell'umanità. Me lo sento dire molto spesso: "Non vi sembra di essere dei custodi leggermente disattenti di tanto patrimonio"? Questo è molto importante e temo che venga dall'assuefazione. Noi ci accorgiamo della bellezza solo quando ci crolla addosso. Ci sentiamo colpevoli solo per il tempo in cui piangiamo i morti. C'è qualcosa di sbagliato.
Non si può andare avanti così. Bisogna cambiare qualcosa. Siamo dei custodi di una bellezza straordinaria che ci viene invidiata e di cui possiamo andare fieri. Non possiamo vantarcene perché non l'abbiamo fatta noi, ma l'abbiamo ereditata e dobbiamo portarla ai nostri figli e nipoti. È una responsabilità molto grande. Rischiamo, se non stiamo attenti, di essere eredi indegni. Non lo siamo, ma potremmo diventarlo se non stiamo attenti. Per questo ci vuole un progetto di lunga durata. Io parlo di cinquant'anni per provocazione, ma è generazionale perché queste rivoluzioni avvengono attraverso le scuole, i giovani e i ragazzi di oggi che tra venti anni saranno uomini. È per questo che è generazionale e questo è anche il motivo per cui queste cose non si fanno in quattro e quattr'otto. Non ci sarebbero nemmeno i soldi. È chiaro che è una cosa di lunga durata.
Signor Presidente, il nostro Paese è bellissimo. Lo sappiamo e abbiamo anche detto che è un Paese di cui siamo custodi forse un po' disattenti.
Però, vedete, la bellezza è fragile. Il nostro è un Paese bellissimo ma fragilissimo al tempo stesso, e a proposito del progetto di difenderlo e di non dimenticare nel tempo, io sento questa responsabilità. È un privilegio enorme, è un grande onore essere senatore a vita. L'idea di difendere il mio Paese, finché sono in vita, da qui, mi piace: mi sembra un'idea che si adatti all'istituto del senatore a vita. Questo è il progetto che propongo. Vi ringrazio per l'attenzione. (Applausi dai Gruppi Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE, PD, FI-PdL XVII, M5S, AP (NCD-UDC), Misto, AL-A (MpA), CoR e GAL (GS, PpI, M, Id, ApI, E-E, MPL). Molte congratulazioni).
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